Yama e Niyama: le radici dello yoga che coltiviamo ogni giorno

Quando si parla di yoga, la mente corre spesso subito alle asana, le posture fisiche, o forse al pranayama, le tecniche di respirazione. Ma la vera pratica dello yoga, quella che trasforma, inizia ben prima di mettere piede sul tappetino. Parte da dentro, dal nostro modo di stare al mondo. E questo fondamento è racchiuso nei Yama e Niyama, le prime due tappe dell’Ashtanga Yoga descritto da Patanjali negli Yoga Sutra.

🌱 Cosa sono Yama e Niyama?

Gli Yama e i Niyama rappresentano le basi etiche e comportamentali dello yoga, un codice di condotta che ci guida nelle relazioni con gli altri e con noi stessi. Non si tratta di regole rigide o dogmi da seguire, ma di principi universali che ci aiutano a vivere con maggiore consapevolezza, armonia e integrità.

Yama: come ci relazioniamo con il mondo

La parola Yama (यम) può essere tradotta come “contenimento”, “autocontrollo”. Sono cinque principi che regolano il nostro comportamento verso l’esterno, verso gli altri. Sono una bussola morale che ci invita a vivere con più coscienza, rispetto e umanità.

1. Ahimsa – Non violenza

Ahimsa (अहिंसा) significa letteralmente “non nuocere”. È uno dei concetti più potenti dello yoga. Non si tratta solo di evitare la violenza fisica, ma anche quella mentale ed emotiva. Come parlo a me stessa? Come rispondo agli altri quando sono stanca o frustrata? La non violenza comincia dal linguaggio, dallo sguardo, dalla qualità della nostra presenza. Nella pratica, significa anche non forzare il corpo, ma ascoltarlo. Come insegnante, significa rispettare i tempi e i limiti degli allievi, accogliere senza giudizio.

2. Satya – Verità

Satya (सत्य) significa “verità”, ma anche sincerità, trasparenza. Dire la verità è importante, ma viverla lo è ancora di più. Essere fedeli a ciò che sentiamo, allineare pensieri, parole e azioni. Questo principio mi accompagna ogni giorno: quando scelgo cosa insegnare, quando racconto qualcosa di me, quando ammetto un errore. È una pratica di onestà radicale con se stessi e con gli altri.

3. Asteya – Non rubare

Asteya (अस्तेय) si traduce come “non rubare”. È facile pensare al furto materiale, ma asteya va molto oltre: rubiamo tempo agli altri quando siamo in ritardo, rubiamo energia quando siamo invadenti o quando tratteniamo l’attenzione su di noi senza ascoltare. Come insegnanti, possiamo rubare ispirazione senza riconoscerla, o trattenere conoscenze per paura di “perdere” qualcosa. Asteya ci insegna a dare valore, a praticare generosità e rispetto.

4. Brahmacharya – Moderazione

Brahmacharya (ब्रह्मचर्य) viene spesso tradotto come “continenza”, ma il suo significato profondo è “camminare nella consapevolezza del divino”. È la capacità di dirigere l’energia con saggezza, evitando eccessi, distrazioni, dipendenze. Per me, Brahmacharya è anche fare spazio: eliminare il superfluo per coltivare ciò che nutre davvero. È scegliere come, quanto e dove investo la mia energia ogni giorno.

5. Aparigraha – Non possessività

Aparigraha (अपरिग्रह) significa “non attaccamento”, “non avidità”. È la libertà di lasciare andare. Oggetti, persone, ruoli, aspettative. Non è facile, ma è essenziale. Sul tappetino è lasciare andare l’idea di una posa “perfetta”. Nella vita, è non definirsi attraverso ciò che si ha, ma riconoscere il proprio valore per ciò che si è.

Niyama: la relazione con noi stessi

I Niyama (नियम) sono pratiche interiori, atteggiamenti verso noi stessi. Se gli Yama ci insegnano a vivere in armonia con gli altri, i Niyama ci guidano verso la cura del nostro spazio interno.

1. Shaucha – Purezza

Shaucha (शौच) è “pulizia”, non solo del corpo, ma anche della mente, degli ambienti, delle relazioni. Pulizia come chiarezza, semplicità, ordine. Non è un’ossessione per l’igiene, ma un invito alla leggerezza: nella dieta, nei pensieri, nei legami. Insegnare yoga in uno spazio pulito, ordinato, è già parte della pratica.

2. Santosha – Appagamento

Santosha (सन्तोष) significa “contentamento”, gratitudine. È la capacità di essere presenti a ciò che c’è, senza bramare altro. Non significa rinunciare a migliorarsi, ma accogliere ciò che siamo, dove siamo, oggi. È una delle pratiche più difficili, eppure più trasformative. A volte, un semplice respiro consapevole è sufficiente per sentire Santosha.

3. Tapas – Disciplina ardente

Tapas (तपस्) è “calore”, “determinazione”. È la forza interiore che ci spinge a praticare anche quando non ne abbiamo voglia. È la costanza, il coraggio di affrontare le nostre resistenze. Tapas non è rigore, è fuoco sacro, intenzione che arde. È anche lo sforzo di vivere con integrità, giorno dopo giorno.

4. Svadhyaya – Studio di sé

Svadhyaya (स्वाध्याय) è lo “studio del sé”, ma anche lo studio dei testi sacri. È ascolto interiore, introspezione. Per me significa anche mettere in discussione, osservare le reazioni, riflettere sul perché di certe emozioni. È una pratica di consapevolezza profonda. E come insegnante, è continuare a studiare, a nutrire la mente e il cuore.

5. Ishvarapranidhana – Abbandono al divino

Ishvarapranidhana (ईश्वरप्रणिधान) significa “affidarsi al Divino”, lasciare andare il controllo, accettare ciò che non dipende da noi. È la pratica della fiducia. Quando tutto è stato fatto, quando ho dato il meglio di me, posso fare un passo indietro e affidarmi. Sul tappetino, come nella vita.


Perché Yama e Niyama sono fondamentali (soprattutto per un insegnante)

Come insegnante di yoga, non potrei immaginare di salire sul tappetino a guidare una lezione senza aver prima abbracciato questi principi. Non sono concetti astratti, ma strumenti reali. Mi aiutano a restare centrata, coerente, autentica. Sono ciò che dà valore alla pratica che condivido. La mia responsabilità non è solo quella di proporre movimenti, ma di offrire un esempio vivente di ciò che lo yoga insegna.

Yama e Niyama sono la base su cui costruire ogni asana, ogni respiro, ogni parola che pronunciamo in sala. Senza queste radici, lo yoga rischia di diventare solo una bella coreografia. Con esse, diventa una via di trasformazione profonda.


🧭 Concludendo

Ogni giorno è un’opportunità per praticare Yama e Niyama. Non servono grandi gesti: basta una parola gentile, un respiro consapevole, una scelta fatta con intenzione. Lo yoga comincia da lì, ben prima di toccare il tappetino. E se come insegnanti vogliamo trasmettere qualcosa di autentico, è da questi semi che dobbiamo partire.

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